La vicenda della rimozione dei due punti assegnati a Lewis Hamilton dopo le penalità nel GP di Russia mostra i lati negativi del sistema della licenza, esageratamente severo e poco comprensibile.

Nonostante la pista di Sochi non abbia prodotto una gara entusiasmante, il Gran Premio di Russia di domenica scorsa ha sollevato numerose tematiche interessanti. Tra queste figurano ovviamente le penalità inflitte a Lewis Hamilton e soprattutto la vicenda dei due punti aggiunti sulla licenza del campione di Stevenage e poi convertiti dalla FIA in una multa alla Mercedes. Dopo la rimozione dei due punti, il britannico ha potuto tirare un sospiro di sollievo, poiché è tornato a quota otto punti e si è allontanato dal limite di dodici che, se raggiunto, lo avrebbe obbligato a saltare una gara.

Il dietrofront della FIA ha tuttavia aperto il dibattito sul sistema della licenza: funziona oppure no? Per dare una risposta si può analizzare proprio il caso di Lewis Hamilton. Nell’ultimo anno, il campione britannico ha accumulato otto punti, frutto di quattro violazioni da due punti ciascuna: le due collisioni con Alexander Albon in Brasile ed Austria, il mancato rispetto delle bandiere gialle in qualifica sempre in Austria e l’ingresso ai box quando la pit lane era chiusa a Monza. Queste quattro violazioni hanno tuttavia portato a penalità di diversa entità: i contatti con il pilota thailandese sono stati puniti con 5 secondi, così come le infrazioni del GP di Russia; l’episodio in qualifica a Spielberg è stato punito con tre posizioni di arretramento in griglia; infine, l’ingenuità nel GP d’Italia è costata al sei volte campione 10 secondi di stop and go.

Dall’analisi sulle penalità accumulate da Hamilton si nota subito come il sistema sia applicato in maniera piuttosto incomprensibile. Per lo spettatore è infatti molto difficile capire il motivo per cui alla penalità più leggera (5 secondi) e alla più pesante (10 secondi di stop and go) corrispondano in ogni caso due punti sulla patente. Il motivo in realtà è molto semplice: la penalità e l’assegnazione dei punti sono sistemi totalmente indipendenti l’uno dall’altro. In questo senso, il classico problema di mancanza di trasparenza dei regolamenti FIA e delle valutazioni dei commissari non aiuta affatto, nonostante il direttore di gara Michael Masi stia cercando di rendere tutto più chiaro.

Altro problema è il criterio di attribuzione dei punti di penalità. In alcuni casi, infatti, non si tiene conto delle responsabilità dei team: sempre nel caso di Hamilton, l’attribuzione di due punti sulla patente per l’infrazione di Monza è senza dubbio molto severa, considerando che la colpa può essere attribuita in egual misura alla Mercedes, che ha richiamato Hamilton ai box, e al britannico, che non ha visto i lontani pannelli al lato della pista. Perché dunque non si dividono a metà anche i provvedimenti, assegnando meno punti al pilota quando la responsabilità non è totalmente sua? In questo senso, un passo avanti è già stato fatto domenica scorsa, con la conversione dei punti sulla licenza in una multa alla Mercedes, che era effettivamente responsabile dell’errore.

Infine, è chiaro come sia necessario rivalutare il limite di dodici punti. Anche qui la situazione Hamilton corre in aiuto: sarebbe giusto squalificare per una gara un pilota che accumula sei o sette piccole infrazioni da uno o due punti, che non mettono in pericolo nessuno, mentre un pilota che innesca tre incidenti pericolosi in un anno accumula al massimo nove punti (tre per ogni incidente)? Ovviamente le due situazioni sono imparagonabili. Una soluzione a questo problema potrebbe essere la rimozione del limite di punti: il potere di squalificare un pilota pericoloso (come accadde con Romain Grosjean nel 2012) potrebbe tornare in mano ai commissari e alla Federazione, sulla base della gravità e della frequenza delle infrazioni e non più su un freddo numero. Ciò che è certo è che il sistema della licenza ha bisogno di essere rivisto.

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