di Giuseppe Saba (Twitter: @saba_giuseppe)

A tre anni dall’introduzione in Formula Uno delle motorizzazioni ibride (le “famigerate” Power Unit), possiamo tracciare un bilancio sull’influenza che queste hanno avuto sull’attuale produzione di serie. O, almeno, “dovrebbero” aver avuto. Infatti, analizzando la situazione nel dettaglio, si scopre che è più realistico il percorso inverso: ovvero, il Motorsport ha in prevalenza attinto a piene mani dagli sviluppi tecnici nell’ibrido della produzione di serie (in Formula1 così come nell’endurance del WEC). Focalizzandoci ora sulla massima formula, possiamo vedere come soprattutto Mercedes (attualmente massima espressione della “Formula Hybrid”) abbia beneficiato dell’ingente mole di ricerca e sviluppo compiuta dalla Casa di Stoccarda nel campo dell’ibrido di serie (presente con numerosi modelli nei listini già dal 2009), seguita da Honda (che, inseguendo la scia della Toyota, massimo produttore nel campo dell’ibrido, ha nell’Insight il suo “manifesto tecnologico” per questo preciso ambito). Più indietro Renault (che aveva invece puntato principalmente sull’elettrico per la produzione di serie, ma che nel 2017 “correrà ai ripari” con l’introduzione della Mégane Hybrid Assist). Caso a sé stante è la Ferrari: la prestigiosa Casa di Maranello, facente parte della “galassia” FCA, non ha potuto beneficiare del lavoro di ricerca della “casa madre” (che, attualmente, ha a listino la sola Chrysler Pacifica con motorizzazione ibrida), e ha dovuto “far da sé”, in maniera, tra l’altro, eccellente, con i modelli LaFerrari e la derivata “track only” FXX-K.

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Per quanto riguarda lo schema tecnico, rispetto a quello comunemente “di serie” (recupero dell’energia cinetica dalla fase di frenata tramite motore elettrico, ovvero il KERS, a cui viene coniugato sempre più spesso il sistema di ricarica “plug-in”, per aumentare i frangenti di funzionamento a “zero emissioni”), in Formula Uno viene utilizzato un ulteriore secondo motogeneratore collegato, al gruppo turbo-compressore, per sfruttare l’energia termo-cinetica prodotta dai gas di scarico che mettono in rotazione la turbina (sistema MGU-H): se questo ha portato ad un ulteriore incremento prestazionale per i motori da formula (che “vedono”, nel prossimo futuro, il traguardo dei 1000 cv),

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la loro diretta natura di fornire il “massimo recupero” a regimi di rotazione prossimi a quelli più elevati ne sconsiglia l’impiego per le auto “di tutti i giorni”, che trovano il loro maggior impiego all’interno di un range di giri motore medio-basso. Schemi, quindi, abbastanza “bloccati”, sia dal regolamento stringente che dalle necessità e dagli attuali limiti tecnici: qualcosa di differente è stato tentato nel WEC da Audi (col “volano” elettro-meccanico concepito dalla Williams Engineering, il cui uso era previsto principalmente per i mezzi pubblici) e da Toyota (con i super-condensatori in luogo delle canoniche batterie, che fornivano un picco energetico più elevato, ma con scarica immediata, rispetto al “canonico” immagazzinamento nelle succitate batterie al litio); tutte soluzioni, comunque, “poco vincenti” nel Motorsport, tanto che entrambi i Costruttori sono ora passati ai sistemi “convenzionali”. Detto ciò, è innegabile che, da un punto di vista prestazionale, gli attuali V6 turbo-ibridi abbiano portato degli incrementi notevoli sia da un punto di vista velocistico che dei consumi (anche se, nelle gare più “demandanti” da un punto di vista motoristico, i piloti devono fare del “fuel-saving” per rimanere nei limiti, imposti dal regolamento, dei 100 Kg massimi di carburante utilizzabili in gara). Ma questo non ha corrisposto ad un analogo incremento della “bagarre” in pista, anzi: gli incrementati costi dei propulsori non han fatto altro che incrementare il divario tra i top-team, che schierano le Power-Unit “ufficiali” (con l’ ”anomalia”, tutta da analizzare ed approfondire, data dai team Renault e Red Bull, totalmente all’opposto in fatto di performance) e quelli che dispongono delle motorizzazioni “clienti”, che, pur avendo “nominalmente” propulsori identici a quelli ufficiali, di fatto scontano dei “gap prestazionali” più che ovvi. Inoltre, l’utilizzo del cosiddetto “flussometro” (che limita la portata massima di carburante a 100Kg-ora all’interno di una determinata “curva” di giri-motore), controllato dalla FIA in maniera “problematica” e poco trasparente non solo per gli appassionati, ma anche per gli addetti ai lavori, non fa altro che alimentare il malumore ed i sospetti fra i team su possibili “sforamenti” (con conseguenti grossi vantaggi prestazionali) del suddetto limite. Anche nella produzione di serie, escludendo i marchi “premium” ed i prodotti dei segmenti più remunerativi, non abbiamo ancora una diffusione capillare dell’ “ibrido per tutte le tasche”: e proprio i costi d’acquisto sono uno dei limiti attualmente più opprimenti, insieme alle norme sull’inquinamento e sulle emissioni di co₂ previste per i prossimi decenni , che impongono alle Case di puntare maggiormente i loro budget di ricerca e sviluppo sulle motorizzazioni elettriche o ad idrogeno, relegando l’attuale ibrido all’immediato, soprattutto per le vetture dei segmenti superiori, in media più pesanti e prestazionali, che traggono i massimi vantaggi da questi sistemi. Uniche eccezioni, in questo panorama, i due costruttori giapponesi Toyota e Honda: in particolare i primi hanno da sempre puntato, con ingenti investimenti, sull’ibrido (con la Prius, attualmente arrivata alla quarta serie, a fare da “apripista” per tutta l’industria automobilistica mondiale), e attualmente hanno la gamma più completa, anche “in basso”, di queste motorizzazioni, con la “piccola” Yaris a fare da “porta d’ingresso” all’ibrido,

seguita da Honda con la sua Jazz. E noi di NewsEffe1, con la nostra nuova sezione News Autocar (raggiungibile su Twitter: @News_Auto_Cars) vi terremo aggiornati sugli sviluppi futuri del settore, anche con prove delle vetture più “emozionali” ed attese.

 

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