Gli habituée delle autostrade italiane non possono fare a meno di notare, all’altezza del casello di
Campogalliano in provincia di Modena, un grande stabilimento dal colore blu. Un colore purtroppo
ormai sbiadito dal tempo, su cui fino a qualche anno fa campeggiava ancora l’insegna “Bugatti”. Se
si rallenta un poco si possono ancora intravedere i segni lasciati dalla rimozione delle lettere e del
logo.

Ma procediamo con ordine. Prima dell’attuale hypercar “Chiron”, prima della “Veyron”, e prima
della gestione Volkswagen a partire dal 1998, iniziò una storia che ha dell’incredibile; sia per ciò
che venne realizzato, sia per la sua prematura fine.

A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, più precisamente nel 1987, l’imprenditore
Romano Artioli si aggiudicò i diritti per la produzione di automobili con il marchio Bugatti, defunto
nel 1952, e fondò una nuova azienda italiana denominata Bugatti Automobili SpA. Si iniziò con la
costruzione dello stabilimento di Campogalliano, tutt’oggi ancora spettacolare, progettato da
Giampaolo Benedini. Fu scelto proprio Campogalliano, perché Artioli e il capo ingegner Stanzani
(“padre” delle Lamborghini Countach e Miura) la identificarono come la “Silicon Valley dei
motori”, casa di nomi celebri come DeTomaso, Ferrari, Lamborghini e Maserati. Il luogo ideale per
reclutare la miglior manodopera per il settore automotive, compito non facile se il quartier
generale fosse stato a Molsheim, cittadina francese dell’Alsazia e sede di nascita della Bugatti nel
1909. Così, il 15 settembre 1990, la fabbrica aprì ufficialmente i battenti con l’arrivo simbolico di
77 Bugatti d’epoca direttamente da Molsheim. La data non fu scelta a caso: era il 109°
anniversario di nascita di Ettore Bugatti. La “Fabbrica Blu” sarà la casa, fino al 1995, di circa 250
persone dedite alla costruzione di una delle auto più veloci del mondo: la Bugatti EB110.

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Credits: http://sometimes-interesting.com

La neonata Bugatti, grazie al suo progetto ambizioso e fuori dal comune, fu capace di attirare molti
ex dipendenti di Maserati e Fiat, tra cui figure di spicco come l’ingegnere Mauro Forghieri,
creatore della serie 312 Ferrari e del motore V12 delle prime Lamborghini Diablo, e Marcello
Gandini, l’autore del celebre design di Lamborghini Countach, Miura e Lancia Stratos, nonché
inventore delle rivoluzionarie portiere “a forbice” (scissor-doors), capaci di aprirsi verso l’alto
(adottate poi per la EB110). [NDR: Anche se in realtà la prima versione di tali portiere risale al 1968
con la Alfa Romeo Carabo, sempre di Gandini].

Contemporaneamente ai tre anni di costruzione della fabbrica, avveniva lo sviluppo della supercar
Bugatti EB110. Un progetto piuttosto travagliato già nelle prime fasi, che vide Artioli scegliere tra
una serie di differenti prototipi realizzati dai migliori designer automotive: Paolo Martin, Giorgetto
Giugiaro, Nuccio Bertone e Marcello Gandini. Parte dello staff lasciò l’industria: Stanzani
abbandonò per una serie di divergenze artistiche e fu sostituito da Nicola Materazzi, l’ingegnere
capo della la leggendaria Ferrari F40 e altrettanto mitica Lancia Stratos. Dallo studio Benedini
furono messe a punto anche una serie di modifiche al progetto originale: venne aggiunta l’iconica
mascherina del radiatore a ferro di cavallo, si optò per l’arretramento dei fari anteriori e per una
linea più morbida sul posteriore. Tutti questi cambiamenti contribuirono a dare una linea molto
personale alla EB110, il cui nome infine fu scelto come omaggio a Ettore Bugatti: EB, le iniziali e
110 per il 110° anniversario della nascita (il 1991).

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Credits: Getty Images

La EB 110 era un‘idea futuristica e differente da quella di tutti gli altri competitors: grazie all’aiuto
dell’azienda francese Aerospatiale specializzata nel settore aeronautico, fu possibile concentrarsi
sul telaio, realizzando così la prima automobile stradale dotata di telaio monoscocca in fibra di
carbonio, un materiale leggero e resistente che poi verrà utilizzato per gran parte delle auto di alta
fascia. Per quanto riguarda la frenata, fu introdotto il sistema anti-bloccaggio (ABS) anni prima che
l’industria automobilistica lo adottasse come standard. Il motore, un 4 turbo 12 cilindri a V di 60º
di 3500cc, in posizione posteriore centrale longitudinale era capace di erogare 560 CV a 8.000
giri/min. Il mostro sacro Ferrari F40 sprigionava “solo” 478 cavalli. Era dotata di trazione integrale
di tipo permanente, mai vista per le supercar dell’epoca, una caratteristica che la rendeva più
guidabile ed equilibrata sia su strada che su pista. Queste caratteristiche permisero alla EB110 di
registrare, nel maggio 1992, il record di velocità per un auto stradale, 342 km/h, e la resero la più
veloce tra le supercar degli anni ’90 (Ferrari F40, Porsche 959, Lamborghini Diablo). La versione SS
(SuperSport), dotata di sola trazione posteriore, erogava 50 cavalli in più ed era più leggera di 150
kg. Nel 1994, un test organizzato dalla rivista tedesca “Auto Motor und Sport” con Michael
Schumacher alla guida, promosse a pieni voti la vettura italiana, portando il celebre campione
tedesco all’acquisto di un modello direttamente a Campogalliano.

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Credits: http://sometimes-interesting.com

A coronare tutto ciò vi era un
prezzo da supercar: a seconda degli optional, una Bugatti EB 110 GT nel 1991 poteva variare tra i
$400,000 to $600,000 (con l’inflazione attuale all’incirca, tra i 660.000 e il milione di dollari). Il
brek-even point di vendite era fissato a 150 auto all’anno, vendute direttamente presso la fabbrica
al compratore finale, che doveva superare una specie di test per valutare se effettivamente si
sarebbe meritato un EB110.

Il lancio commerciale della EB110 fu spettacolare. Artioli pagò il volo per Parigi a tutti i dipendenti,
in modo che potessero partecipare all’evento Bugatti Expo il 15 ottobre 1991, il 110° anniversario
della nascita di Ettore Bugatti. L’auto fu svelata da Alain Delon e dalla moglie di Artioli, Renata
Kettmeir, prima a Versailles e poi davanti al Grande Arco de La Défense. Dopo la presentazione,
Delon la guidò personalmente attraverso l’Avenue des Champs-Élysées. Quella sera, 1800 persone
furono invitati al party per le celebrazioni e il giorno seguente due EB110 partirono per la volta di
Molsheim, la casa “spirituale” della Bugatti.
Nonostante le indubbie qualità tecniche e tecnologiche, le 150 auto all’anno non furono mai
vendute. Dopo 4 anni la Bugatti aveva venduto solo 135 esemplari in totale, e circa 80 ordini erano
in fase di sviluppo, ma numerosi problemi economici si stavano manifestando. Il lancio in
Giappone fu un fallimento, le rigide leggi americane sulla sicurezza spinsero sempre più oltre lo
sbarco nel mercato USA, nonostante ci fossero diversi compratori che avevano già depositato la
somma per l’acquisto. Il progetto seguente, la berlina super sportiva a 5 porte “EB112” continuava
a rimanere sulla carta e lontana dalla produzione. L’acquisizione del marchio Lotus deciso da
Artioli non ebbe sicuramente un effetto positivo sul bilancio dell’azienda, la cui business unit più
performante era quella dedicata all’abbigliamento di lusso Bugatti, che nel 1994 fatturò di più
rispetto alla controparte automobilistica. A metà del 1995 tutti questi fattori, combinati ad una
gestione finanziaria poco oculata, misero la Bugatti in piena crisi: crisi di cui i dipendenti non erano
al corrente, anzi, i progetti erano diversi e nessuno si aspettava una fine, purtroppo, imminente.

Iniziarono ad alternarsi su diversi giornali continue voci di trattative per l’acquisto dell’azienda,
citando interessi di principi indiani, investitori e fondi di lusso non ben specificati, cordate
internazionali eccetera. Ma tutto si risolse con un nulla di fatto, portando la Bugatti sull’orlo della
bancarotta a settembre 1995. Cosa che inevitabilmente si manifestò il 22 settembre, quando il
giudice di Modena decise di chiudere l’azienda e mettere i sigilli ai cancelli d’entrata. Fu una
tragedia per i 250 dipendenti, che scoprirono la situazione solo quando i loro badge d’ingresso
smisero di funzionare la mattina seguente. Il 23 settembre 1995 la Bugatti Automobili SPA fu
chiusa per sempre.

Secondo il New York Times, furono accumulati circa 125 milioni di dollari di debiti. Se li dividiamo
per le sole 135 auto prodotte, ogni macchina costava in produzione quasi un milione di dollari
ciascuna, ma veniva venduta effettivamente ad una cifra minore che dunque non permetteva di
coprire i costi. La bella ma triste storia della Bugatti “italiana” si trascina fino ad aprile 1997,
quando durante l’asta di fallimento furono venduti i macchinari e i telai rimasti nella fabbrica.
La stessa fabbrica che i romantici appassionati d’automobili possono ancora vedere passando
dall’autostrada.

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(articolo a cura di Paolo Gianfrate)

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